Di seguito riportiamo la preziosa biografia di Lorenzo Delleani scritta da Marziano Bernardi in occasione della mostra dedicata al pittore Biellese nel centenario della sua nascita (1940):
“Un secolo fa, il 17 gennaio 1840, nasceva a Pollone presso Biella quegli che sarebbe diventato il più istintivo ed impetuoso pittore del Piemonte moderno.
A trentadue anni dalla sua morte e mentre a Torino è aperta, allestita da La Stampa nel suo salone, questa grandiosa mostra commemorativa, in piena civiltà coloristica ed in un clima pittorico ch’è ancora sotto il segno di quell’Impressionismo europeo in cui sfociò la grande rivoluzione estetica ottocentesca preparata nel rapido dissolvimento del provvisorio Neoclassicismo, il momento sembra propizio ad una revisione dell’arte sua e ad una popolare definizione del suo temperamento.
Anche perchè la critica, il mercato, il favore del pubblico una volta tanto concordano nei giudizi ed intorno a quel nome si rassoda una fama che accenna a crescere col passar del tempo.
Le più recenti vendite han visto collezionisti esigenti in gara per tavolette dove le nebbie d’Oropa lambiscono nella fredda conca verde-cupo i tetti bruni del Santuario od il torrente scroscia diaccio al lampo d’una luce argentina fra umidi prati autunnali.
Nel più recente libro sull’arte dell’ultimo secolo si legge questa frase: “… se l’estro felice lo coglie, la sua pennellata ha una foga, una espressività modellatrice entro una pasta di colore densa e ricca, che non ha l’uguale in nessun altro paesista italiano dell’800”.
Il problema dominante, anzi l’unico problema spirituale su cui debba sostare lo studioso di Lorenzo Delleani è – lo si sa – quello della sua “conversione” che nel 1881 già sollevava tante discussioni, con l’improvvisa comparsa del quadro Quies all’Esposizione Nazionale di Milano.
Una sorpresa, un trionfo quella tela che rappresenta il lago di Candia al crepuscolo mentre la luna piena sta sorgendo sulla bassa pianura canavesana: ben cinque volte l’autore dovette replicarla a richiesta di committenti entusiasti durante i mesi che l’esposizione restò aperta, ed intorno era un coro di lodi.
L’album-ricordo della mostra ne pubblicava la riproduzione accompagnandola con queste parole:
“Ecco uno dei migliori quadri dell’Esposizione; la luna spunta e si alza da un orizzonte nebuloso rischiarando lo specchi d’acqua cheta come uno stagno morto; sulla riva rincasando con qualche pecora, s’inoltra verso il fondo vaporoso e nero una povera guardiana di bestie; l’intonazione cupa, neutra, la tranquillità del colore, l’oscurità piena di misteri, producono la sensazione di un silenzio solenne, d’una quiete religiosa e melanconica: è il sentimento che si esplica senza espressioni di volti, di mani, di segni, colla magia del chiaroscuro, è il colorista che si manifesta senza colori per la sola potenza dei valori delle tinte”.
Linguaggio critico di sessantanni fa, quando tuttavia – sia detto di sfuggita – un quadro era ancora suscettibile di descrizione, perchè aveva un significato non soltanto stilistico.
Che era dunque accaduto?
Per oltre tre lustri Delleani, passato alla pittura da un principio di studi musicali (le basi d’una cultura classica gli eran state fornite nel collegio di San Giovanni di Moriana, in Savoia), discepolo all’Accademia Albertina di Torino del meticoloso Carlo Arienti che aveva avuto per maestro il Sabatelli ed ammirava profondamente i Veneziani, poi come al solito di Enrico Gamba e di Andrea Gastaldi, i due coriferi piemontesi della pittura storico-romantica, aveva mietuto successi dipingendo degli Ezzelino da Romano contemplanti l’eccidio di Vicenza, dei Cristoforo Colombo in catene, dei Torquato Tasso uscenti dallo spedale di Sant’Anna, dei Corradino di Svevia arrestati in casa di messer Frangipane, dei Cromwell espulsi dal Parlamento, oppure, fra un Assedio d’Ancona ed una Caccia al falco, l’inevitabile Beatrice di Tenda.
Il soggiorno a Venezia negli anni giovanili aveva avuto un’indubbia influenza sul suo modo di capire e di impiegare il colore, e già Mario Soldati, nell’introduzione al catalogo della Galleria d’arte moderna di Torino, osservò che in alcuni particolari del quadro Sul molo a Venezia, del 1874, c’è già quel Delleani colorista, col suo istinto della luce, del movimento e della massa che ritroveremo in tutta la più nota produzione del paesista: ciò che indusse il critico ad affermare una unità e continuità delleaniana, pittorica se non contenutistica, contradicendo coloro che propendono per una “conversione subitanea e rivelatrice” dovuta all’abbandono del quadro storico, ad un soffio di nuova freschissima ispirazione.
E tuttavia, anche dopo venezia, è col Sebastiano Veniero vincitore di Lepanto che Delleani si impone a Parigi all’arcigno Gèrome e vittoriosamente entra al Salon del ’74: lo stesso anno Fontanesi, dopo l’Aprile, dipingeva la Bufera imminente.
Non solo: nell’80, all’Esposizione Nazionale di Torino, con la sua Dogaressa Caterina Grimani il nostro artista è ancor fedele all’antica maniera, e proprio per questo è lodato da Luigi Chirtani che lo incita a perseverare nel quadro storico e nella scena di genere!
Ecco dunque un uomo di quarant’anni quant’altri mai spiritualmente equilibrato, un pittore maturo in pieno possesso dei suoi mezzi tecnici espressivi e per di più stimato, ammirato, comprato, voltar le spalle con risolutezza a tutto un passato di lavoro, tal quale un Verga (ed i due casi concordano fin nella coincidenza delle date, da quella della nascita a quella della conversione) che rinnega Eva ed Eros per scrivere la Vita dei campi e i Malavoglia.
Disse lo Stella nel ’93 ( e tutti gli altri poi lo ripetono) che i cinque quadri esposte da De Nittis alla mostra torinese dell’80 aprirono gli occhi a Delleani, gli indicarono la sua nuova via.
Perchè proprio De Nittis?
Da vent’anni Fontanesi esponeva a Torino le sue elegie pittoriche, vi spandeva i remoti echi di quella che Cecchi chiamò la sua sublime, runica tristezza.
Pure da venti anni, radunati intorno a Carlo Pittara, Avondo e Rayper, Bertea e D’Andrade, Pastoris ed Issel e gli altri della Scuola di Rivara confermavano con l’idillio intimistico di quei campi e di quei rivi, di quei cieli e di quei solchi l’autenticità di unclima paesistico tipicamente subalpino: ne parlava con ammirazione il Signorini, ed intanto Edoardo Perotti (grande pittore misconosciuto) già fra il ’60 e il ’70 plasmava a gagliardi blocchi costruttivi le sue larghe, patetiche visioni naturali.
Tutto ciò che avrebbe potuto decider Delleani ad abbandonare l’inerte convenzione del quadro storico già era vivo e operante, con risultati spesso stupendi, qui in Piemonte; e quel suo fiuto fu infatti graduale, come testimoniano alcuni piccoli saggi anteriori all’80, e maturò spontaneamente nell’atmosfera creata intorno all’arte piemontese d’impronta franco svizzera da Fontanesi e dalla Scuola di Rivara.
Insisto su quest’affermazione ancora inedita perchè troppo semplicistica mi sembra la soluzione data al “caso Delleani” dal Soldati e dal Somarè: il primo col ridurre la conversione del pittore alla possibilità di rinunziare finalmente al “quadro compiuto”, “di dipingere degli studi di piccole dimensioni all’aria aperta e nel minor tempo possibile”; il secondo con l’attribuirla soltanto a una questione di indirizzo artistico. D’altri più complessi elementi conviene invece tener conto, d’altre imperiose presenze e preesistenze: senza Rivara con le sue suggestive proposte, senza Fontanesi col suo lirismo trasfiguratore, Delleani sarebbe diventato quell’irruente, insaziabile, quasi rapace scrutatore di una natura agreste tutta in funzione di luce, che noi oggi conosciamo ed ammiriamo?
In ogni artista autentico, da Manzoni a Verga, da Fattori a Segantini, l’espressione stilistica sui determina in rapporto alla sua visione della realtà – realtà del mondo esterno, realtà di un intimo sentire. Per questo il trapasso dalla maniera storica a quella paesistica, che di solito è citato come un semplice episodio, è d’importanza capitale per l’arte delleaniana.
Il nostro Delleani nasce a quarant’anni sonati, nel 1881, col quadro Quies.
Da allora, fino alla morte il 13 novembre 1908, la natura non ha per lui che una voce, infinitamente e variamente modulata ma unica. Dozzine di grandi quadri, migliaia (quante?) di studi.
Instancabile, d’una rapidità d’esecuzione prodigiosa , letteralmente si getta sul motivo come un corsaro sulla preda; là su quel prato, su quel declivio brullo dove pascola un armento, dove una mucca leva il muso attonita, c’è un verde, c’è un giallo da far cantare nel lampo del sole, una gamma che si schiarisce dal bruno del terreno al grigio soffice d’un cielo nubiloso; un contadino attraversa la radura, la forma scura è anch’essa luce nella gradazione dei toni fra primo piano e sfondo.
Cava di tasca una vecchia busta, un pezzo di giornale, fulmineo determina sommariamente il taglio, le masse, la successione dei piani… lasciamo parlare Giuseppe Bozzalla, che fu suo allievo e tanto lo vide lavorare: “Il quadro è già in suo possesso, sentite e risolto!
In un attimo toglie le correggie del suo sacco e , canterellando, siede sul suo sgabello, col porta-studi già aperto sulle ginocchia.
Nervosamente, con grossi pennelli, in pochi istanti riempie di colori tutta la tavoletta che, ad una certa distanza, ha di già tutte le parvenze di un quadro finito. Poi, con altri pennelli di setola, prosegue nel suo lavoro; rinforza certi toni con la spatola, delinea meglio alcuni contorni con un pennellino di martora, e per ultimo segna nell’angolo di destra, in fondo, la data del giorno, del mese e dell’anno”.
Così per le balze del Biellese, o in Val d’Aosta o in Liguria o a Roma o a Venezia; così, nell’83, sulle fredde spiaggie o per le distese brumose d’Olanda, con l’amico poeta Camerana, dove va a cercare il colore e la luce – ancora e sempre la luce! – di Rembrandt, con un’ambizione e una speranza che già prima gli avevan suggerito, da un celebre modello che aveva visto al Louvre, il bue squartato del quadro Sotto Natale e gli suggeriranno quelle altre numerose meraviglie che sono le impressioni dell’Haya, di Rotterdam, di Scheweningen.
Parvenze di un quadro finito: infatti; anche se i rami dell’albero son segnati con la punta del lapis che ha scavato un solco nella pasta; anche se la pennellata vorticosa sbava sulla forma creando rifrangenze luminose, e quindi nuove ricchezze tonali, e la forma stessa nasce da questa luce che nel suo rimbalzare continuo determina il movimento, conferisce alla visione pittorica uno strapotente senso energetico.
Il tratto geniale è così, talvolta, tutto in una spatolata che incide con intuizione plastica il colore, o in un grumo di carminio posato con precisione infallibile sul cupo sfondo notturno della minaccia temporalesca, oppure nella stesura fredda, lisciata, di un’acqua nera di lago alpino sotto corpose nubi incombenti: terre brune, allora, su neri avorio condotti con spettacolosa sapienza cromatica che non è però lo squillo del virtuoso che si pavoneggia fino all’incoscienza, ma intima necessità spirituale e sorveglianza rigida di stile.
Poi quell’impegno “breve, intenso, rabbioso”, come ben disse il Soldati, si esauriva – quasi rapida ebbrezza – nello sforzo convulso della stessa tensione nervosa.
Tale era il suo limite, nell’ispirazione, nella determinazione del motivo, persino nel tempo dell’esecuzione: e non poteva, non doveva varcarlo. Il suo respiro poetico, ben spesso erculeo, non durava più di due o tre ore.
Dicono ch’egli imprecasse ai quadri, i grandi quadri che gli toccava comporre in studio per le esposizioni; e ne dipingeva infatti di vastissimi, con larghe scene di processioni, di vita alpigiana e contadinesca, o con vedute di porti, di monti, di fiumi, di valanghe, di tempeste.
Voleva dipingerli, sarebbe stata – benchè lo si neghi da chi lo invoca, ad assolverlo, il “pregiudizio” del quadro compiuto – la sua ambizione; ma conosceva le sue possibilità e perciò si scagliava contro le esigenze ritenute “borghesi”, mentre le sue tele col crescer dell’ampiezza si svuotavano ed afflosciavano come se, per difetto appunto di durevolezza ispiratrice, non riuscisse ( e così era in verità) a coordinarne in unità stilistica gli sparsi elementi.
Il suo segreto era la concitazione.
Resta quindi di lui un’opera folta, frondosa, grondante d’energia coloristica, non molto varia nel numero, d’una consistenza poetica che è più nell’intensità stupenda d’un difficilmente superabile dinamismo pittorico, che non nell’alta, solenne, completa realizzazione d’un mondo lirico.
La sua è la gagliarda poesia dell’impeto, pulsante, sonante, quasi eroica; e in questi limiti egli seppe dar voce a uno dei più bei canti della moderna pittura italiana”.
Marziano Bernardi
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