di Luigi Conconi in “Daniele Ranzoni“, Milano, 1911

 

 

Accingendomi a parlare dell’opera del grande artista di cui ebbi la cara amicizia la prima e la più pratica idea è quella di dire: guardatela! Infatti a che giova la parola trattandosi di un’arte che, sia pure entro segnati limiti, sempre la supera poichè incomincia dove quella si arresta? Privilegio pure della musica questo di sfuggire lle definizioni e a quelle dotte scomposizioni che fanno pensare a chi volesse saper l’ora da un pizzico di ruote di un orologio scomposto. Eppure quali strane analogie ebbe l’opera di Ranzoni colla musica! di policromie, di vaghe armonie di forme, di iridescenze di pensiero, di grazia, di bontà, di quanti preziosi elementi è costituita la sua pittura pur sembrando così piana, semplice, direi ingenua! Gli è che questi doti di grazia, di bontà derivavano in lui da una squisita ammirazione del bello, sotto qualunque forma si manifestasse, morale e materiale, ed erano in lui cos’ spontanee ed organiche da originarne l’espressione con quella facilità e semplicità non volute nè imparaticce, che sono le grandi qualità di tutti i grandi artisti e delle migliori forme di tutte le arti.

Quale accademia o scuola potrebbe trasfondere questi elementi necessari dell’arte in chi non ha la fortuna di possederli naturalmente? Cosicchè ancora una volta si può dire che prezioso elemento dell’arte è la speciale attitudine nell’artista, non dico unico perchè pure opere di altissimo valore nacquero attraverso a mediocre attitudine della mano quando però la passione, il bisogno di comunicare ad altri i propri sentimenti e le proprie idee e una corrispondente tenace volontà hanno supplito vittoriosamente.

Pure queste erano in Ranzoni qualità laterali non necessarie bastandogli esuberantemente quelle. La visione ottica in lui acutissima, la percezione delle delicatezze più squisite delle tinte del viso di fanciulle e di bambini suoi soggetti preferiti, la facoltà di coglierne il profumo delicato attraverso alle forme sempre rigorosamebnte caratteristiche ed espresse da quell’acuto osservatore che egli era, lo fa ssomigliare a parer mio, pur facendo perfettamente a sè, pure con ciò non intendo classificarlo accademicamente ma semplicemente notare una analogia di risultati che non gli fa torto certamente.

Come il Luini non affrontò problemi complessi e vigorosi di pensiero nè usò tecnica grandiosa, sommaria, decorativa ma sempre vibrata nella piena ricerca della luce, della forma, delle espressioni  a preferenza calme e delicate. Sembrerebbe un controsenso parlare di originalità che in Ranzoni fu grandissima, trattandosi di semplicità e di cose e di wspressioni comuni, ma in lui derivava dal non essere mai stato l’animo suo inquinato da dogmi, da sistemi e da ricette ma dall’essersi abbandonato fiducioso di sè a quelle eterne leggi per cui il bello non ha bisogno per nessuno di guide o prontuari o spiegazioni per essere gustato e compreso. Bastava questo per distinguerlo dalla folla di quelli che fanno la pittura come andrebbero all’ufficio, ed egli si distingueva tra i sommi. In più aggiunse un raro spirito di osservazione che si estendeva a controllare la sua stessa bontà di artista e da questo complesso di coefficenti nacque quella forma così sincera pure essendo così esuberante di finezze tutte necessarie e neppur queste prestabilite, da mettere in imbarazzo a trovargli anche fra i grandi maestri antichi un termine di paragone.

E se ho accennato all’opera del Luini gli è più per una psichica coincidenza e per consimili preferenze che per la tecnica che è così grande parte dell’arte, non interessandosi che del mondo con cui esprimersi; e in essa si può senza dubbio considerare il Ranzoni come un precursore tanto seppe arrivare a dei massimi in effetto e di colorazione forse mai prima raggiunti. E lo stesso Cremona che lo ammirava, da quella vasta mente e da quell’uomo generoso che era, non si tratteneva,  come solitamente avviene davanti a un autentico valore in chi è a corto di facoltà, con sapienti silenzi o con autocompiacenti persuasioni, dal confessare giubilante di ammirazione e di affetto di dovere all’amico Ranzoni se a un dato punto gli si sono aperti gli occhi.

Non era un complimento amichevole soltanto, era il bisogno di verità che fu il programma di entrambi, era la solidarietà nella guerra bassa e sciocca che si moveva ad entrambi dagli arrivati non si sa come nè perchè, che dal loro posto privilegiato (oh accademie come siete veramente benefiche alle arti!) trattenevano dal libero sviluppo e con ogni mezzo quanti avrebbero potuto far nascere col confronto anche solo un dubbio sulla bontà del loro florido negozio.

Ma a ciò rimedia solitamente il tempo. Scomparsi colle persone gli interessi immediati che si urtavano resta quella preziosa facoltà comparativa che è privilegio dei tempi per cui in giorno o l’altro finalmente giustizia si fa.

Si è fatto cenno di un’influenza dell’opera del Ranzoni su quella del Cremona e di una superiorità dell’uno sull’altro, ma io veramente non saprei trovare grandi rapporti di affinità fra i due grandi artisti nè trovare la necessità di cercare se ve ne siano. Entrambi espressero il loro tempo anzi lo precorsero e può essere stato una casula e coincidenza derivante da un semplice buon senso che ebbero assai sviluppato e che fece loro abbandonare presto le complicate e frigide composizioni storiche, non ammettendo che rappresentazioni storiche nascenti nel nostro tempo per quelli che verranno, e condensare tutte le loro energie nella rappresentazione della bellezza nella modernità.

In ciò i due programmi coincidevano ognuno facendo a sè. Ma se per Tranquillo Cremona, mente vasta in tutte le manifestazioni del pensiero, il lavoro era una faticosa e febbrile conquista di alte idealità per quella incontentabilità, comune a tutti gli uomini di genio, nel perseguire la perfezione, per Daniele Ranzoni animo entusiasta e pronto, pure avendo comune col Cremona un’eccezionale possesso del disegno, l’opera era assai più spontanea e piana, certo meno profonda; e guidata da una lucida e ben determinata idea originaria si sviluppava gradatamente e continuamente fino a compiersi in un fuoco di disegno, di colore e di vita.

Era la somma di infinite osservazioni che si accumulavano sempre retta da un raro senso critico. Cosicchè partendo da consimili assunti con cospicui mezzi di tecnica e di genialità  è naturale che arrivassero a una certa analogia nei risultati pur seguendo vie diverse, sebbene ciò a tutta prima non sembri.

La ragione principale per cui si nota una comunanza di tecnica nel colore, direi una collaborazione nelle ricerche che vi si riferiscono, sta senza dubbio in quel processo di divisione cromatica iniziata da Fontanesi e sviluppata fino ai risultati massimi da Cremona e Ranzoni, processo che ebbe un seguito assai notevole nell’arte contemporanea e che dischiuse orizzonti nuovi nella delicata arte del colore, ma con questa superiorità nei tre grandi campioni del nuovo mezzo pittorico, che, mentre nelle loro opere non era che uno spontaneo e naturale bisogno di acuire una già intensa osservazione, direi quasi a loro insaputa, appena si è trasformato in una formola che arriva di qui fin lì e con le esagerazioni di quelli che non badano ad altro che ad essa, facendo del mezzo lo scopo, pur servendo a rialzare la media degli odierni ingredienti dell’arte, ha troppo volte degenerato fino a diventare una maniera e troppo spesso una maniera ingombrante.

Naturalmente la nuova teoria diede anche splendidi risultati, basterebbe citare Eugenio Gignous, Segantini, Pelizza, Morbelli, Previati, Emilio e Baldassare Longoni e quell’appassionato sacerdote del divisionismo che è Vittore Grubicy; ma mi concedano le ombre dei morti e l’amicizia dei vivi di credere che la bontà delle loro opere è affidata meglio e più al grado di passione che in esse è condensato, all’intensità della volontà nell’artista di comunicare emozioni, sentimenti ed idee, e che la divisione del colore, è tanto meno interessante quanto è meno necessaria, pure essendo ottimo il principio che si potrebbe riassumere così: come il disegno non acquista una definitiva bontà che per mezzo di una cura grandissima e di prove e riprove e pentimenti che ne accrescono interesse e rispettabilità, lo stesso si potrebbe dire del colore per cui pure è necessaria una laboriosa e delicata conquista. Altrimenti un lucido potrebbe equivalere al disegno dell’artista e l’oleografia gareggiare col quadro.

Ma il risultato massimo che ebbe Daniele Ranzoni nella nobile ambizione che può avere un artista, quella cioè di vedere accolti, continuati e sviluppati i suoi principi, l’ebbe coi fratelli Troubetzkoy, insigni artisti con cui ebbe la più continua e cordiale intimità. Ad essi pure nessun premio delle burocratiche accademiche, nessuno dei cosidetti incoraggiamenti che sarebbero più utili se incoraggiassero a fare abbandonare l’arte a qualcheduno non nato per essa; ma fortunatamente potevano far senza degli uni e degli altri, preconizzati da un acuto conoscitore d’arte e di artisti col paragone di “bastimento di lungo corso”.

Infatti mentre qui non ebbero il più ovvio riconoscimento di un evidente larghissimo valore è bastato che si trasferissero altrove per averlo ampio e superiore ad ogni desiderio. E il punto di partenza fu il buon senso , la verità, la sincerità e la semplicità di Ranzoni corroborati dalla più grande amicizia. Per giovani saldi di mente e di corpo bastò questo inizio cui s’aggiunse la bellezza di questi luoghi ad essi come a Ranzoni tanto cari sì che dalla lontana America o dalla Russia vi ritornano ogni anno a ritemprarsi a questa magnifica scuola dal vero e del bello che il nostro Ranzoni illustrò con tale amore da fare dei pochi suoi paesaggi verbanesi dei veri capolavori.

Nelle splendide tele di Daniele Ranzoni riappare trasfuso l’entusiasmo che ebbe per la Vita e per l’Arte , entusiasmo che ancor giovane lo spense, e da esse, tarda ma spontanea giustizia, s’irradia gloria pura al suo nome.

 

 

Luigi Conconi