Telemaco Signorini da "Ritratti d'artisti italiani" di Ugo Ojetti, 1911 (terza e ultima parte)
Proponiamo la terza e ultima parte della biografia di Telemaco Signorini curata da un critico autorevole come Ugo Ojetti che del pittore fiorentino, oltre che amico,è stato estimatore e raffinato collezionista dell'opera. Si tratta di uno dei profili più incisivi tra i molti dedicati ai macchiaioli, movimento del quale la Società di Belle Arti gestisce un numero significativo di quadri in vendita:
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Telemaco Signorini da "Ritratti d'artisti italiani" di Ugo Ojetti, 1911 (seconda parte)
......Del resto anche prima del '59 e della guerra le ricerche puramente tecniche avevano occupato i migliori artisti fiorentini e li avevano raccolti in quel gruppo feroce per la sua intransigenza e ammirevole per la sua abnegazione e la sua alacrità, che restò noto sotto il nome di macchiaioli. Pei macchiaioli, macchia non ebbe il significato corrente di abbozzo, ma piuttosto quello che molto più tardi, quando vennero di moda in Italia gl'impressionisti di Francia, ebbe la parola impressione. I primi a predicar che la macchia era il fondamento della pittura furono Domenico Morelli, Saverio Altamura e Serafino Tivoli quando all'esposizione di Parigi del 1855 si accorsero - son parole del Signorini - difetto capitale dell'arte italiana ufficiale e accademica essere la mancanza di solidità e la deficenza di chiaroscuro, e tornando si fermarono a Firenze e spiegarono le loro critiche in quel famoso Caffè Michelangiolo che in via Larga, ora via Martelli, tra il '48 e il '55 fu il luogo di convegno dei cospiratori più ardenti e dal '55 al '66 degli artisti più moderni e più fervidi che vissero a Firenze o vi passassero, accesi nel loro entusiasmo per la nuova pittura francese anche dagli entusiasmi francofili del 1859.
Osservano i macchiaioli che noi non vediamo i contorni di tutte le forme, ma solamente i colori di queste forme, che dunque la linea - il così detto disegno - è solo il concetto astratto delle forme delle quali considera solo i limiti e le proiezioni, prescindendo dalla luce che le avviluppa e dal colore che le riveste, mentre di fatto l'occhio non percepisce che luce e colore. Per parlar nel gergo dei pittori, il vero, così, risulta solo da macchie di colore e di chiaroscuro ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo di rapporto tra i vari toni. Un colore, di fatto, non cambia mai, può essere più chiaro o più scuro ma il turchino resta sempre turchino e il rosso sempre rosso. L'ombra, cioè, non ha un colore per sè stessa: per dirla con Adriano Cecioni, dal quale tolgo queste definizioni, essa non è un panno ma un velo.
Queste massime che i macchiaioli avevano dichiarate fin dal 1855 furono, in fondo, il vangelo degl'impressionisti francesi. In un articolo del 1866 sul Monet, Emilio Zola definiva così la legge dei valori: "L'artista posto davanti a un soggetto che pur sia, si lascia guidare dai suoi occhi che veggono questo soggetto come una combinazione di larghe tinte sottoposte a una legge che le impone le une alle altre. Una testa di contro a un muro non è che una macchia più o meno bianca su di un fondo più o meno grigio, e il vestito della figura diventa, per esempoi, una macchia più o meno blu messa accosto alla macchia più o meno bianca. Da ciò una grande semplicità, quasi nessun dettaglio, un insieme di macchie giuste e delicate le quali a qualche passo di distanzadanno al quadro un rilievo che colpisce". L atraduzione di questo passo la trovo in una conferenza sugl'Impressionisti francesi (l'appellativo anche in Francia non apparve che nel 1874) tenuta da Diego Martelli nel 1877, proprio da Diego Martelli che fra i critici nostri fu il primo a difendere e a diffondere le teorie dei macchiaioli
Non intendo con questo stabilire una precedenza dell'arte italiana su quella francese. Sarebbe una fortuna troppo grande e poco vera. E quei tre che tornarono da Parigi e quelli che primi a Firenze li ascoltarono - e di costoro il più vecchio era Vincenzo Cabianca veronese e il più giovane Telemaco Signorini- , quelle loro teorie non le avevano tratte solo dalla loro testa: le avevano formulate vedendo gli uni a Parigi, gli altri nella villa Demidoff a san Donato sopra Firenze, non solo Delacroix ma anche Decamps e poi i paesisti francesi detti "del '30", Corot e Rousseau e Daubigny. Ma un fatto è certo: che quando nel '63 Manet espose al Salon la Colazione sull'erba cui voltarono le spalle indignati l'imperatore e l'imperatrice, e quando nel '65 vi espose l'Olympia, e quando Degas già passato dall'imitazione di Ingres a quella di Delacroix fu dalla vista delle pitture giapponesi al salon del 1867 indotto alla pittura di movimento, il Cabianca e il Signorinie il Bantie il Tivolie il Borrani avevano già da molti anni statuito dogmi e dipinto quadri degni d'essere, non solo nell'intenzione, paragonati per modernità ai quadri di quei maestri francesi. Il più celebre quadro del Signorini, Le Pazze, fu, a detta del Cecioni, dipinto nello stesso anno in cui fu esposta l'Olympia. Anzi il Signorini, in una polemica sul Rinnovamento di Venezia nel giugno del 1874, affermò addirittura che all'Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 col trionfo del Morelli, del Celentano e del Fontanesi, i macchiaioli potevano già dire d'aver definitivamente vinto la loro battaglia e convinto anche il pubblico.
Ma la lotta che allora si combatteva dagli artisti e dai critici del Caffè Michelangiolo, e non solo dei macchiaioli, non era solo contro un a vieta tecnica pittorica, era tutta contro un'istituzione:conro l'Accademia. E anche in questa lotta nessuno superò, per audacia d'epigrammi e sagacia d'argomenti, Telemaco Signorini.
Ormai veramente non esisteva più la classica Accademia dell'Appiani e del Benvenuti, con dogmi fissi, metodi infrangibili come sbarre di prigione, esemplari intangibili come divinità: esistevano le accademie, e ognuna s'impersonava in un maestro, il Bezzuoli a Firenze, l'Hayez a Milano, il Podesti a Roma, il Lipparini a Venezia , per dir solo di quelli che ancora hanno un nome. Questo costrinse quei polemisti a demolir le persone per demolire l'istituzione , a "sciupar la gente" come diceva il Cecioni, con sarcasmi e dileggi prima che a criticar l'Accademia con forza di ragionamenti e d'opere. Ma alla fine, venti o trent'anni dopo, le stesse Accademie dovettero finire a pensare, se vollero avere una parvenza di vita, come quei loro oppositori spietati.
L'Accademia aveva, con criteri esterni e nominali, divisa la pittura in varie classi, prima la storica, poi quella di genere, poi quella di paesaggio, e v'erano anche le sottoclassi, la pittura storica pagana e la pittura storica cristiana, la pittura d'animali e la pittura d'architettura. E i macchiaioli urlavano che un cavolo e una rapa valevano in pittura Dante e Beatrice , e il paesaggio valeva il quadro storico, e di categorie in pittura ve n'eran due sole: la pittura buona e quella cattiva. E' un sonetto del Signorini:
Ti dan l'Arte così: per prima classe
c'è la pittura storica e c'è poi
la pittura di genere...
E contro le finitezze e le melensaggini dell'aneddoto spiritoso o commovente nella pittura di genere - seconda categoria di nobiltà, - altre frecciate:
...Un bel quadretto
Se vedesse che bella cosettina!...
V'è una mamma ammalata, accanto al letto
ci si vede a sedere una bambina
che fa la calza, ed è tanto carina...
E se vedesse, poi, c'è con rispetto
un bel vaso da note con l'...
che non si puol vedere il più perfetto.
Fin nella madia ci si vede il tarlo
che ha fatto i buchi...
L'Accademia aveva i suoi santi: i greci e Fidia e Prassitele, e Raffaello, - San Raffaello Sanzio. Chi avrebbe osato bestemmiarli? E quelli ripetevano la storiella del Courbet che da vecchio va per la prima volta al Louvre e ne esce dichiarando che all'infuori dei suoi quadri non v'è niente di buono; e per sinonimo di goffaggine leziosa e convenzionale davano abitualmente l'Apollo del Belvedere o la Madonna della Seggiola; e degli antichi non salvavano che i "primitivi" quattrocenteschi "perchè erano ingenui".
L'Accademia proclamava la necessità della scuola e d'un lungo tirocinio a passo a passo? E quelli a proclamare che le scuole ufficiali d'arte offrendo a tutti l'occasione prossima per diventare gratis tanti Raffaello, erano una fabbrica di spostati e di bugiardi, - che l'arte non s'insegna e tutt'al più se ne possono insegnare i primi rudimenti meccanici, - che l'osservazione del vero è il solo professore rispettabile. Nel 1863 il Signorini espose un quadretto dove due bambini con gli occhi rossi di pinato guardavano da sotto a un ombrelòlo due galline che beccavano vicino a una siepe. E il quadretto era intitolato: Felici voi galline che non andate a scuola!
Fin negli atteggiamenti e nei vestiti e nei modi di dire essi deridevano i professori e gli studenti dell'Accademia. Questi per rispetto ai maestri e agli antichi dovevano esser modesti e presentando un proprio lavoro dirne male, compunti, gli occhi a terra? E il Signorini a gridare in difesa dell'originalità e della sincerità : - Un quadro mio, prima di tutto deve piacere a me!
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Telemaco Signorini da "Ritratti d'artisti italiani" di Ugo Ojetti, 1911 (prima parte)
Di seguito riportiamo la prima parte del ritratto di Telemaco Signorini fatto da Ugo Ojetti nel volume "Ritratti d'artisti italiani" nel 1911:
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Giovanni Fattori da "Ritratti d'artisti italiani" di Ugo Ojetti, 1911 (terza parte)
Dietro a lui presso la porticina dello studio sopra una cassapanca di legno è seduto - e da quanti anni lo vedo lì, in quella posa, guardia fedele! - un manichino vestito da tenente d'artiglieria, con una vecchia divisa di trent'anni fa, un berretto troppo piccolo, la giubba corta e larga, i calzoni a cavaturaccioli. E il manichino dai pomelli rosei tien le mani composte sul grembo e il torso un po' piegato in avanti come il buon maestro qui sulla sua poltrona. Par che lo imiti alle spalle, - riflesso dei suoi sogni, compagno muto nel quale in tanto tempo di convivenza sia penetrata un po' di quella vita lì accanto, esuberante e italianissima e schietta....
E un altro giorno gli ho chiesto di parlar dell'arte sua. Anche allora m'ha dato qualche scartafaccio misterioso in cui per preghiera di critici e d'amici ha segnato senz'ordine qualche ricordo saliente. Ma io pur sfogliando il manoscritto ho voluto far parlar lui.
-L'arte? Dica la fame. Per tanti anni, arte e fame le abbiamo vedute a braccetto che abbiam finito a credere che chi dipingeva a stomaco pieno, doveva per forza dipingere male. Già, a me il commercio in arte è sembrato sempre una ladroneria civilizzata. E la cortigianeria e l'intrigo a danno dei colleghi, li ho sempre disprezzati e spero di finire la vita mia così. E poi, dia retta a me, agli artisti giovani la fame fa bene. Quando mio padre mi accompagnò a Firenze la prima volta nel 1846 in diligenza per la via di Pescia e di Pistoia e mi mise a dozzina in una casa di via Condotta e mi fece iscrivere all'Accademia, alla scuola del professor Bezzuoli, io che in Accademia non volevo frequentar che la scuola del nudo e non avevo un soldo per prendermi un modello e tanto meno per prendermi uno studio, sa che feci? Mi comprai un albumetto e mi misi in mezzo alla strada a disegnar tutto quello che passava senza pensare alla composizione e all'estetica: e ho continuato per anni, e lo farei ancora, e in quello studio dal vero ho imparato tutta l'anatomia e tutta la prospettiva che il professor Bezzuoli non riusciva a insegnanrmi. Se fossi stato ricco, chi sa, ancora dipingevo Maria Stuarda!
Oggi sono professore d'Accademia anche io e non me ne lamento chè di pittori ne ho fatti anche io, e di valore, e mi vogliono bene; ma il maestro non può far altro che aiutare con consigli l'ingegno naturale e deve badare, più che ad aiutarlo, a non viziarlo. E se l'ingegno naturale e la passione non ci sono, è inutile perder tempo. E questo è il torto delle Accademie. Guardi il concorso pel pensionato. Mandano da Roma il tema e i giovani migliori fanno fiasco perchè devono dipingere quello che non sentono e quello che non amano.Lascino che ogni concorrente si scelga il tema che vuole, e allora vedranno! Ma queste cose è inutile dirle... Torniamo alla fame di quegli anni. Prima la mia stanza la divisi col Mosti, un giovane livornese di grande ingegno che morì di tubercolosi, e si lavorava tutta la notte con due candele, una pel modello - di gesso, s'intende - e una per noi. Poi la divisi con uno scultore, Giovanni Paganni che è morto a Montevideo. La moglie di un fiaccheraio, una bella buionda che s'era innamorata di me, ci veniva ogni sera a far la minestra di magro e a rigovernare un poco. Per fare economia pensammo di comprare tutt'un sacco di patate e di tenercelo lì in stanza. Per qualche tempo fu un'orgia di patate lesse, fritte, arrostite. Ma la stanza era umida e un bel giorno le patate si misero a buttar fuori tanti occhi verdi, con l'intenzione, forse, di moltiplicarsi, e dovemmo, povere patate, rinunciare a mangiarle. Fu una bella perdita. Anche la stanza era difficile a trovarsi perchè era difficile pagarla.
Ecco, chi non sa che significhi aver pagato finalmente, per tutt'un mese, la pigione di una stanza dopo settimane di vagabondaggio, non sa che significhi la proprietà. Io, quando ci riuscivo, diventavo matto, e per affermare la mia proprietà saltavo, ballavo, passavo le mani sui muri. Una volta finii a sputar sulle pareti più alto che potevo per provarmi che la stanza era mia e che l'avevo pagata! E poi mi domandano perchè scelgo sempre soggetti tristi che nessuno compra e non faccio dei quadri allegri! Ma per Dio...
Ma a lei questo forse non importa, e le pazzie che facevo in Accademia quando spegnevo i lumi e riempivo d'ogni ben di Dio, e non solo di Dio, le sciabole dei veterani che vi facevan da custodi e versavo la brocca dell'acqua nella stufa, leha stampate già Telemaco Signorini, e non sta bene alla mia età raccontarle ancora, proprio qui in Accademia...
Il mio liberatore, e non solo mio, fu Nino Costa. Già negli anni addietro era venuto il Gastaldi da Torino e m'aveva condotto per forza in campagna a far del paesaggio, lasciando che il Pollastrini in Accademia gridasse che io ero un matto e un rivokluzionario. Già era venuto nel '54 Morelli a entusiasmarci col suo quadro I freschi fiorentini. Ma quando Felice Tivoli mi condusse a studio Nino Costa e questi vide un quadrone di storia medicea che cominciavo allora con mille stenti e mi urlò: - Ma tu sei un uomo o non sei un uomo? E non ti accorgi che tutti questi t'imbrogliano? - ricevetti un'impressione tale che non la dimenticherò mai. E fu per lui che cominciai la Battaglia di Magenta e fu per lui che vinsi e non volli far più che un'arte libera e non ebbi più fede che nei soggetti contemporanei, nei soggetti della nostra vita, e lasciai gli antichi agli antichi che almeno li conoscevano di vista... Eran già passati cinque o sei anni da quando Cencio Cabianca aveva dipinto a Porta alla Croce un maiale nero contro unn muro bianco, e ci aveva mandato tutti in visibilio. Ma la rivoluzione "della macchia" solo dopo la venuta di Nino Costa a Firenze diventò più cosciente, più ordinata, più feroce, più irresistibile. Poveri "macchiaioli! Signorini, Borrani, Sernesi, Cabianca, Banti, Lega,Abbat: tutti morti... Ci resto io, ed è poco, poveri amici miei... Ella conosce gli scritti di Adriano Cecioni che adesso Gustavo Uzielli ha raccolti in volume, e il Gazzettino delle Arti che è del 1867, l'anno in cui io dipinsi le Macchiaiole: la storia e gl'ideali dei macchiaioli sion tutti là ed è inutile che glieli ripeta.
Tutte le estati ci si radunava a lavorare insieme a Castiglioncello nella villa del povero Diego Martelli che è stato un fratello per tutti noi. Che felicità! Che lavoro! Fu lì cje m'innamorai della Maremma. Ma non creda che, perchè facevamo una rivoluzione tanto seria, fossimo diventati tutti ricchi e tutti savii. Per quanti anni, andando a mangiare col Signorini e col Cannicci dalla sora Zaira in via Parione, ho dovuto ordinare una porzione di "lesso ciuco". - E che sia molto indigesto, sora Zaira! - Contro i preti poi e i moderati ce l'avevamo sempre. Nello stesso studio in cui era venuto e tornato Nino Costa, un sabato santo bussò un prete col chierico e l'acqua santa per la benedizione. Avevo la modella nuda sul palco, ma con le autorità s'ha da esser cortesi: - Si accomodi, si accomodi! Benedica, benedica! - Il prete entrò, scappò, e non è tornato ancora...
Questi ricordi Giovanni Fattori me li ha dettati in molte volte e tanti altri me ne ha dati bell'e scritti su uomini e su cose, sui suoi trionfi e su quelle che egli chiama "le amichevoli persecuzioni" dei colleghi sulle sue acqueforti sobrie e rudi delle quali è vergogna che lo Stato non abbia una raccolta completa, sui suoi quadri di battaglia e di maremma sparsi ormai per l'Italia e pel mondo:
- Uno ne ho anche in fondo al mare, il Mercato di cavalli a Roma in piazza Montanara; chè tornando dall'esposizione del 1876 a Filadelfia se lo son preso i pesci con tutt'il bastimento.
Ma degli uomini Giovanni Fattori non ha un'opinione consolante. In fondo, da tutti i suoi quadri emana una tristezza istintiva che in certi paesaggi e in certe scene contadinesche assurge a una solennità semplice e larga, degna d'un "primitivo".
Ha pochi amici e li adora. All'egoismo degli altri s'è abituato, dice, "come alla pioggia d'inverno". Ma questo suo pessimismo balza fuori da certe sue opere più piccole e più raccolte col vigore d'un epigramma macabro. E chi ha veduto lo Staffato solo sulla strada fangosa trascinato verso la bufera e la morte da quel cavallo nero, o il Pro Patria mori dove verso un soldato morto sanguinolento abbandonato presso una pozza d'acqua fangosa grufola una mandria di porci, ha dovuto pensare - dice bene il Pantini che del Fattori è il più accurato biografo - alla satira fiera dei mali della guerra di Francisco Goya.
Anche l'altro giorno ho picchiato lì sul fianco dell'Accademia alla porticina sui cui stipiti ogni amico ha scritto o inciso un messaggio e Renato fucini ha improvvisato:
E tre dì ci tornai. Sempre nessuno!
Poscia più che il dolor potè il digiuno.
Il maestro era là sulla sua poltrona rossa, e nello studio vicino due allieve lavoravano alacri e fresche nei grembiuloni bianchi.
-A che pensa, professore?
- Pensieri filosofici! m'ha detto ridendo e accarezzandosi il mento: - Ho udito stamane un fiaccheraio che bestemmiava il suo solito Dio c... Quell'uomo non conosce i cani che son generosi e riconoscenti e fedeli. Dio c..., vedeè un'nvocazione all'Eterno. A dirgli Dio uomo, questa sì, sarebbe una bestemmia, e grossa!
luglio 1908
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Cesare Ciani: un artista non allineato
Esiste un nesso tra pittura e letteratura? la risposta non pò che essere affermativa, come attesta un'infinita varietà di esempi che, nel corso dei secoli, hanno animato la storia di quelle arti sorelle. Il fatto che la fonte d'origine di entrambe sia rappresentata dall'animo umano, ha determinato contemporaneamente un rapporto di stretta correlazione anche riguardo alla loro finalità: quelle di raffigurare e raccontare gli stati interiori dell'individuo, dando voce alle espressioni più intime. Del resto, l'inscindibile connubio esistente tra l'immagine figurativa, intesa nella sua valenza di elemento linguistico, ed il suo contenuto narrativo ha costituito, da sempre, una delle più antiche preoccupazioni all'origine, soprattutto, della rappresentazione visiva. Una correlazione, dunque, assimilabile ad un legame simbiotico in cui ciascun elemento esiste in funzione dell'altro, in una perfetta corrispondenza. Valga per tutti il ciclo di affreschi della Cappella Sistina di Michelangelo, nel quale l'artista è riuscito a raffigurare, sublimandola, quella sottile relazione che intercorre tra le immagini ed il loro senso apparente.
Mettendo a fuoco le analogie tra testo letterario ed opera dipinta, ravvisabili nel risultato scaturito da una comune ispirazione, sorge spontaneo il riferimento a casi di assonanza come i lavori futuristi di Balla e Boccioni e i testi di Marinetti; le impressioni macchiaiole di Fattori e le novelle veriste di Verga o i racconti vernacolari di Fucini; i romanzi di Palazzeschi e Pratolini e le scene di vita quotidiana del mondo popolare fiorentino, evocato da artisti nati e cresciuti in seno a quella realtà.
In questo senso la pittura di Cesare Ciani rappresenta uno dei casi esemplari. Essa può essere letta come una sorta d'archetipo delle riflessioni intime di un narratore che, nell'intento di sensibilizzare le corde più profonde dei sentimenti, scegli la sua arte come mezzo di maggiore efficacia espressiva. E se anche questa prerogativa è valsa a procurargli in vita stima e popolarità inducendo Fattori a definirlo uno dei suoi "allievi maggiori", oggi lo fa rientrare nella nutrita casistica di quei pittori apprezzati dagli intenditori ma non baciati dal successo. All'origine di una mancata definizione critica sta l'annoso problema, comune a molti altri artisti a lui cintemporanei, di essere vissuto e di avere operato in un periodo di transizione, estremamente complesso per la moderna vicenda figurativa toscana, quando i vecchi protagonisti macchiaioli ancora in vita, cominciavano a sentire l'incalzare della nuova ondata dei giovani pittori naturalisti come Cannicci, i fratelli Gioli e Ferroni e quella dei più irrequieti propagandisti del colore, agli accenti fauves, quali Liegi, Puccini, Ghiglia e Bartolena. L'arte di Ciani, nella quale i valori umani non sono meno preponderanti di quelli tecnici, rifugge in eguale misura dalle innumerevoli declinazioni "postmacchiaiole" e supera in piena autonomia l'urgente difficoltà, avvertita intorno alla metà degli anni ottanta da tutta la vecchia guardia del Caffè Michelangiolo, di dimostrarsi ancora al passo coi tempi.
Dopo un esordio contraddistinto da uno spiccato interesse per il ritratto - una Testa di vecchio segnerà, infatti, nel 1866 il suo debutto alla Promotrice fiorentina, e quello dedicato a Fattori nel 1900 s'imporrà come opere emblematica della delicata congiuntura culturale di fine secolo, oltrechè come eccezionale testimonianza storica del legame affettivo instaurato intorno al 1885 con il maestro livornese dopo l'apprendistato accademico con Giuseppe Ciaranfi - Ciani costruì la propria immagine di artista "moderno" attraverso la felice e sempre più diffusa tipologia tematica delle scene di vita all'aperto, inserite in contesti naturali, a metà strada tra il paesaggio e la veduta urbana. Il fascino esercitato dai cosiddetti "crocchi" di signoriniana memoria, composti da personaggi umili, ai margini della facciata elegante della Firenze borghese, rispondeva alle risorse di una pittura che, nei suoi soggetti, s'accordava ancora alla visione macchiaiola, aggiornata tuttavia attraverso l'inquadratura di fondali affatto convenzionali e, proprio per questo, scenicamente idonei nella loro fedeltà al colore locale dei vecchi quartieri della città. Questa predilezione per spazi densi di calore umano non fa di Ciani un interprete di puro paesaggio, tutt'altro, egli fu essenzialmente un pittore di figura per il quale la narrazione delle diverse condizioni sociali e, soprattutto, la caratterizzazione individuale, psicologica, drammatica e sia pure "domestica" dei modelli rappresentò sempre il motivo di maggiore attrazione. Da ciò emerge un modo popolato da gente comune, ancorato alla realtà più semplice e dedito ai mestieri più umili, come il ciabattino, il fabbro - proprio un dipinto ispirato a questa figura siglò la sua partecipazione alla Promotrice fiorentina del 1900 - la trecciaia, la mondatrice e , più in generale, i lavoratori dei campi impegnati nelle loro mansioni quotidiane e, le cosiddette comari o "ciane", le caratteristiche donne che con i loro sussurati racconti animavano il ritmo lento della vita che scorreva nei piccoli paesi, lungo le rive dell'Arno. Scene di vita comune, sostenute da una maestria e da una naturale e sicura padronanza dei mezzi pittorici che, se da un lato non nascondono la matrice d'origine, dall'altro attestano una chiara determinazione al suo rinnovamento, permettendo all'artista, soprattutto dopo il soggiorno parigino del 1899, in occasione dell'Esposizione Universale, di confrontarsi sul difficile terreno delle risonanze luministiche e cromatiche delle immagini. Quella di Ciani è, infatti, una formazione esemplata precisamente sulla visione teorica e sperimentale del realismo toscano del secondo Ottocento, permeata di una forte ascendenza signoriniana, che connoterà soprattutto la produzione del decennio a cavallo del secolo. Nei primo anni del Novecento la base disegnativa prima così evidente si attenuerà progressivamente per lasciare spazio ad una pennellata dal tocco estremamente sfumato e ricco di variazioni tonali, sempre contraddistinta però da una densità materica, unico elemento di congiunzione con il rutilante e acceso cromatismo del postmacchiaiolo livornese. Una pittura, si potrebbe dire, al tempo stesso schietta e di complessa elaborazione, capace di adattarsi perfettamente al particolare rapido mutare degli indirizzi del gusto novecentesco e che ani, nella sua trattazione compositiva, ne testimonia i preziosi intrecci ed i vari riferimenti culturali, segnandone la progressiva evoluzione. Alla stregua di un Rosai ante litteram il suo maggior vanto consistette, davvero, nel procedere ad una cesura con il tradizionale lessico toscano di matrice ottocentesca - impresa davvero titanica alla luce del forte condizionamento esercitato sugli artisti della sua generazione da personalità egemoni quali Lega e Fattori - riuscendo a mutare la "macchia" da strumento d'indagine del reale, a terreno fertile nel quale riversare nuovi stati d'animo sensazioni derivate da una realtà che ha cambiato la sua cornice sociale. Sarà, infatti, questo il carattere più originale della sua opera, dove la singolare trasposizione dei vecchi canoni figurativi, a confronto con un nuovo modo di concepire il presente, apparirà straordinariamente risolta.
A distanza di un secolo dalla nascita del pittore, è legittimo fare un bilancio della fortuna che, confermatasi attraverso una presenza costante alle esposizioni, ha seguito un diagramma molto particolare. Dopo essersi segnalato ad alcune Promotrici - a questo proposito va ricordato che, mentre a Torino, Napoli e a Genova si trattò di casi sporadici, la sua partecipazione a Firenze continuò quasi ininterrottamente sino al 1922 - l'interesse da parte della critica si fece più intenso, come sovente accade, all'indomani della sua morte avvenuta nel febbraio del 1925. A favorire la nascita di un collezionismo mirato, concentrato, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta contribuì, nel 1926, il successo tributatogli in occasione della mostra commemorativa, allestita nei locali della Galleria dell'Accademia fiorentina, composta da una rosa di circa centottanta dipinti. Il mercato che è seguito è sempre stato scandito da una riflessione e da un dibattito sull'effettivo valore di una personalità priva di etichette e non "allineata" nel panorama artistico toscano di fine secolo. Senza ombra di dubbio il fascino delle sue scene contadine, ispirate a sentimenti patetici e popolari risiede proprio nel loro sfuggire a qualsiasi codificazione stilistica, sia essa di natura naturalista o impressionista. Contemporaneamente è lecito, però, riconoscere che proprio questa ricerca di una caratterizzazione della propria identità pittorica, così successiva e personale rivela, suo malgrado, la diretta ascendenza con quel mondo macchiaiolo, oramai scomparso, ma sempre avvertibile nelle struggenti atmosfere contadine di una cronaca senza tempo.
Elisabetta Palminteri Matteucci
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