di Ada Masoero, da Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2015

 

 

“Noi non siamo che scherzi di luce”, ripeteva Medardo Rosso. Ed è vero che di luce nutrì le sue opere come nessun altro scultore. Ma Rosso era anche un “mago” della materia, maestro nel declinare  l’identico soggetto  più e più volte nel gesso, nel bronzo, nella cera (e in fotografia; non a caso, letteralmente, una “scrittura di luce”), per estrarre  da ogni materiale tutte le potenzialità più segrete  che fosse capace di sprigionare.

La mostra monografica  curata da Paola Zatti  che si apre il 18 febbraio  alla Galleria d’Arte Moderna di Milano dà conto di questa sua specificità con grande efficacia. Il percorso si apre con la Ruffiana, 1883 (e 1885 e poi 1895, in cera) qui in gesso e in bronzo, forse il più potente dei suoi lavori milanesi della prima ora, che mostra i debiti contratti con gli studi fisiognomici di Leonardo e con la successiva tradizine realista lombarda. Tocca poi al Birichino, 1882, ribattezzato Gavroche  come il personaggio dei Miserabili di Victor Hugo, che ride spavaldo, il berretto di traverso: un soggetto fortunato  (infestato infatti da falsi) in cui Rosso intreccia la rappresentazione  dell’infanzia, cara al gusto borghese fin-de-siècle, con la denuncia sociale, uno dei cavalli di battaglia degli Scapigliati,  che in quella prima età industriale  lombarda cercavano i loro soggetti nel proletariato urbano. Due qui le varianti, entrambe in bronzo ma con “tagli” diversi, che attestano quest’altra pratica amata da Rosso: uno, della Gam di Milano, con lo zoccolo di ruvido legno grezzo, conserva il collo e un accenno di colletto; l’altro, della Gam di Torino, è ridotto a una testina sghemba, in bilico sulla base lucente. E, con loro, gli altri soggetti dissacratori e schiettamente scapigliati della Portinaia e dello Scaccino (o Sacrestano o Se la fuss grapa, nel singolare argot franco-milanese di Rosso).

Accanto alle sue prime fotografie, trova posto Aetas aurea, 1886, dal Musée d’Orsay, un’opera  (qui in bronzo ma realizzata anche in cera) eseguita al rientro dal primo soggiorno parigino, in cui il tema della maternità acquisisce un’esenzialità nuova nel modellato e un impianto anche più ardito del consueto, prova del suo primo, fecondo contatto con l’ambiente francese.

In seguito – come si diceva- dall’arrivo a Parigi, nel 1889, fino al rientro a Milano, nel 1922, e poi sino alla fine, nel suo lavoro non esiste più una vera cronologia ma continue rielaborazioni dei (pochi) nuovi soggetti degli anni ’80 e ’90. Ci fu chi disse che dopo una disastrosa caduta dal tram, a Vienna nel 1903, avesse serie difficoltà di concentrazione; chi invece sospettò che quella caduta fosse il primo segno della sifilide all’ultimo atto, contratta a 31 anni; certo è che dopo quella data creò solo l’Ecce puer, nel 1906. Ecco allora, nel salone centrale, la parata dei suoi soggetti più fortunati, dalla Rieuse, 1890, nella prima fusione in bronzo, del Musée Rodin (segno di una stima iniziale, poi sfociata in aperto dissidio con lo scultore francese) e la Grande rieuse, 1891-1892, che ne deriva, nei cui volti si riverbera il sorriso della sant’Anna di Leonardo, e l’Henri Rouart, 1890, ritratto dell’industriale e collezionista francese, mecenate di Medardo, che per lungo tempo non amò però questo ritratto il cui busto, allungato, diventa poco più di una corteccia: qui se ne possono godere le varianti in gesso, bronzo e cera nera, così come nelle due (assai diverse) interpretazioni in bronzo e cera si può assaporare lo splendido, modernissimo Bookmaker, 1894, un uomo trasformato in un tronco che emerge obliquo dal terreno per sfaldarsi subito nella luce:come un “balenio dell’essere”, per citare una felice definizione di Giovanni lista. Molto simile nella sua apparenza fugace è il contemporaneo Uomo che legge, anch’esso proposto nelle declinazioni tra loro diversissime del bronzo e della cera. Ma non sono meno emozionanti le testine del Bambino ebreo, 1893, che pare voltarsi a un richiamo, e della Bambina che ride, 1889, anche questa simile a un’istantanea colta al volo. E’ però con la strepitosa Madame X, 1896, da Ca’ Pesaro,  che Medardo raggiunge la vetta di una modernità tanto profetica da aver suggerito ad alcuni studiosi una datazione ben più tarda, intorno al 1910-1913, ma che i documenti sembrano confermare al 1894: unica scultura giunta in una sola variante, Madame X è un “uovo” di cera totalmente astratto (vien da pensare alla Musa addormentata di Brancusi, che è però dal 1910). una “penombra” disse Nino Barbantini, che aggiunse che questa era per Rosso “la figlia prediletta”. E anche, si potrebbe dire, la madre ideale dei due Enfant malade, 1893-1895 (uno strepitoso, in cera, da Dresda, pare un feto), che le stanno accanto, partecipi dell’identica, assoluta semplificazione formale.

Dopo un video e una sequenza di fotografie di sue opere, sulle quali Rosso interviene con viraggi, abrasioni, collage, segni pittorici, perfino bruciature, che ne fanno delle opere d’arte autonome, la mostra si congeda con altre foto, inedite, da lastre originali, poste intorno al meraviglioso Ecce puer, 1906 (in cera e in bronzo), poco più di un’immagine mentale che affiora da dietro un velo, all’opposto della massiccia Madame Noblet, 1897, in gesso e in bronzo: graffiata, erosa, smangiata, eppure solida, lei, come un blocco di pietra.