di Ada Masoero da Il Sole 24ORE, 3 febbraio 2016
Con le sue 130 opere, giunte a Milano da grandi collezioni pubbliche e private internazionali, la mostra «Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra», si è inaugurata ieri sera in Palazzo Reale, rilegge quella koinè dai molti accenti che tra l’ultimo quindicennio dell’Ottocento e il primo del Novecento attraversò l’intera Europa, imprimendo una netta virata ai linguaggi espressivi sino ad allora dominanti. La nuova corrente di pensiero del Simbolismo rispondeva alla disillusione di coloro — ed erano molti, dall’Inghilterra alla Francia, dal Belgio all’Austria, dai paesi scandinavi all’Italia — che rifiutavano di nutrirsi del mito del progresso e di quella fede cieca nella scienza che avevano dominato il secondo ‘800, generando il naturaliasmo in letteratura e il realismo prima, poi l’impressionismo, nelle arti visive.
La pittura degli Impressionisti, con il suo sfarfallio di pennellate colme di luce, che avevano l’unica ambizione di registrare il reale senza interrogarsi su null’altro che sulla natura della sensazione visiva, aveva perso ogni mordente su una generazione che andava nuovamente in cerca delle risposte alle domande universali sulla vita e sulla morte, sull’amore e sull’erotismo, sul bene e sul peccato…
Per esprimere questa nuova linea, notturna e ombrosa, della cultura europea, occorreva però un linguaggio espressivo altrettanto nuovo: quegli artisti lo trovarono, sul piano stilistico, nella pittura dei primitivi italiani, mentre sul versante dei contenuti da un lato attinsero dal grande serbatoio di simboli offerto dalla mitologia (riportati, poi, in primo piano dalla nascente psicoanalisi), dall’altro esplorarono i territori del sogno e dell’incubo. Grazie a tali «strumenti» gli artisti simbolisti poterono penetrare negli abissi insondati — perchè tanto a lungo rimossi, a vantaggio della ragione e della scienza — dell’interiorità più profonda.
Fu Baudelaire, con la sua «peccaminosa» raccolta di poesie I fiori del male, a offrire le prime risposte a questo nuovo bisogno. Ed è proprio dai Fiori del male che prende le mosse questa mostra affascinante, che poi procede, in ben 24 sale del piano nobile di Palazzo Reale, toccando nelle sue sezioni tutti i nuclei fondanti di quella cultura.
Nel percorso della mostra — promossa dal Comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale, 24 Ore Cultura — Gruppo 24 Ore e Arthemisia Group, con la cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi, con Michael Draguet — scorrono dipinti al tempo stesso ammalianti e perturbanti , come Le carezze (L’Arte), 1896, di Fernand Khnopff, un’opera mai vista in Italia, non a caso scelta come immagine-guida della rassegna che attinge al mito di Edipo e la Sfinge., ma tocca anche il tema oggi così attuale dell’androgino, mentre sfiora le regioni della morte, con la cupa presenza dei cipressi. Ci sono gli allarmanti dipinti mitologici di Gustave Moreau, quelli iniziatici dei Nabis e le donne fatali e diaboliche di Franz von Stuck, e poi alcuni esempi di scultura e molti, magnifici fogli di grafica, un medium praticato ad altissimi livelli dagli artisti del tempo, da Odilon Redon, che diede corpo nei suoi lavori ai più angosciosi dèmoni della mente, a Max Klinger e Félicien Rops, fino al nostro, non meno grande, Alberto martini.
Perché se in mostra sfilano tutti i protagonisti internazionali di quella stagione, molti dei quali sono presenti con opere giunte per la prima volta in Italia (come l’Orfeo morto di Jean Delville, il grandioso L’Eletto di Ferdinand Hodler o Il silenzio della foresta di Arnold Böcklin), il grande valore aggiunto di questa mostra sta nella quantità e nell’altissima qualità degli artisti italiani presenti, che documentano come il Simbolismo, in tutte le sue declinazioni non sia stato secondo in Italia alle altre analoghe espressioni europee. A tenerne alta la bandiera sono artisti del calibro di Segantini, Previati, Pellizza da Volpedo e Morbelli, attivi a Milano, e i più «dannunziani» Sartorio e De Carolis, loro a Roma, tutti presenti con opere di grandissimo fascino.
Ma non mancano autori meno noti, eppure capaci di creare opere altrettanto potenti (per tutti, Luigi Bonazza, con la sua ammaliante Leggenda d’Orfeo). Il congedo è affidato a due episodi esemplari di quel clima: la rievocazione della Sala internazionale dell’Arte del Sogno, nella Biennale di Venezia del 1907, che segnò la consacrazione del Simbolismo nelle arti visive, qui evocata dallo spettacolare ciclo pittorico di Sartorio e dai dipinti di Galileo Chini e Plinio Nomellini esposti allora in quella stessa sala, e, in chiusura, le sfolgoranti decorazioni, così Klimtiane , delle Mille e una notte di Vittorio Zecchin, realizzate per l’Hotel Terminus di Venezia nel 1914, giusto alle soglie dello scoppio della Grande Guerra, che avrebbe segnato la fine di quel mondo.